Il ritratto di un osservatore SLF

Gli osservatori dell’SLF

Per poter creare un bollettino delle valanghe affidabile è necessario disporre di informazioni aggiornate provenienti dal territorio. A tal fine, l’SLF gestisce una propria rete di osservatori. Gli osservatori ufficiali vengono formati dall’SLF, inviano regolarmente le loro osservazioni e vengono rimborsati per le loro segnalazioni. A seconda della situazione vengono rilevati dati in parte differenti, come ad es. valutazioni su neve fresca e ventata, segnali di allarme e distacchi di valanghe osservati e spesso anche una valutazione del pericolo di valanghe attuale.

Alcuni degli osservatori SLF trasmettono le loro segnalazioni per lo più da un determinato luogo che, di norma, è quello in cui risiedono o lavorano. Oltre alle osservazioni, alcuni di loro effettuano anche delle misure su un campo di rilevamento.

Una parte degli osservatori del SLF si muove liberamente lungo le Alpi svizzere. Essi contattano l’SLF soprattutto quando sono in possesso di informazioni importanti relative alla loro posizione momentanea.

Filippo Genucchi

. Vive con la sua fidanzata nella casa costruita nel 1546 dalla sua famiglia
. In inverno responsabile della sicurezza del passo del Lucomagno, in estate cantoniere per sentieri di mountainbike ed escursionistici
. Osservatore SLF dal 2007

Cosa segnali esattamente in qualità di osservatore?

In qualità di osservatore regionale, segnalo ogni giorno numerose informazioni relative all’altitudine e all’esposizione. Queste includono ad esempio dettagli sulla neve fresca, sul limite delle nevicate e sulle proprietà della superficie del manto nevoso. A queste si aggiungono le osservazioni relative a valanghe spontanee e distacchi artificiali. Tutte queste informazioni mi servono per stimare l’innevamento e la situazione valanghiva così come per valutare l’eventuale evoluzione. Due volte al mese rilevo un profilo su pendio con test di stabilità.

Come sei diventato osservatore SLF?

Durante il servizio militare ho avuto la fortuna e la soddisfazione di operare presso il reparto valanghe dell’Esercito svizzero. Le attività che svolgevo come soldato della milizia – simili a quelle che svolgo oggi come osservatore SLF – mi sono talmente piaciute che dopo il servizio militare volevo rimanere in quel campo. Quindi ho deciso di partecipare a un corso per osservatori presso l’SLF, anche per rimanere sempre aggiornato sull’argomento.

Cosa ti piace di questa tua funzione?

Amo vivere all’aperto e mi piace la sensazione di far parte di un grande insieme. Il bollettino delle valanghe è un servizio efficiente e utile dell’SLF.

Cosa ti piace meno/è più faticoso?

A volte per motivi di tempo è difficile scavare a metà e fine mese i profili stratigrafici, a causa di altri impegni. In questi casi devo trovare una soluzione, ma veramente faticoso non lo è mai.

Cosa significa per te essere un osservatore?

Per me è un piacere e anche un onore poter offrire il mio contributo a questo importante prodotto come il bollettino delle valanghe. Anche se è difficile fare un confronto, quando viaggio all’estero mi accorgo di quanto siamo fortunati qui in Svizzera dal punto di vista della prevenzione contro le valanghe. Ho la responsabilità di segnalare le informazioni corrette, quindi prendo molto sul serio la mia attività di osservatore.

Come riesci a conciliare questa tua funzione con le altre attività?

Dall’inverno 2008/2009 sono responsabile della sicurezza per l’apertura invernale della strada che porta al passo del Lucomagno sul lato ticinese. Un lavoro che si concilia bene con la mia funzione supplementare di osservatore SLF, perché per entrambi i lavori è fondamentale stare ogni giorno all’aperto a contatto con la neve.

Qual è stata la tua esperienza più impressionante con la neve e le valanghe?

Ogni valanga catastrofica che si abbatte sulla strada mostra la forza brutale della neve: ogni volta questa è per me un’esperienza impressionante. Le valanghe per scivolamento di neve che diventano sempre più problematiche fanno pensare a un cambiamento ambientale (ad es. clima, limite delle nevicate) e a quanto l’ambiente sia fragile.

Io stesso ho già causato il distacco di alcune valanghe, ma fortunatamente non sono mai rimasto sepolto. Queste esperienze mi hanno insegnato molto.

Cosa ti lega al materiale neve?

La passione per lo scialpinismo e naturalmente per il lavoro.

Cosa ti piace fare quando hai finito di lavorare/nel tuo tempo libero?

Per fortuna posso conciliare il lavoro, la passione, gli hobby e lo sport. Ciò significa che lavoro durante il tempo libero e viceversa.

Qual è il posto che ami di più nel mondo?

Mi piacciono tutte le stagioni. Un inverno con neve a sufficienza, basse temperature e assenza di vento sarebbe un stagione ideale che per me potrebbe durare sei mesi.

A cosa non puoi rinunciare?

Il passo del Lucomagno ha naturalmente un posto speciale nel mio cuore. Anche il deserto d’alta quota in Cile e i vulcani sono posti molto speciali per me. Ma esistono anche numerosi altri posti che mi hanno lasciato un bel ricordo, ad esempio New York. Prima di visitarla per la prima volta, non avrei mai creduto che mi piacesse. Ma in fin dei conti una grande metropoli è come un grande bosco da scoprire.

Qual è il periodo dell’anno che ami di più?

Non posso rinunciare a stare all’aria aperta.

Quest’anno l’SLF festeggia «75 anni di bollettino valanghe». Cosa significa per te questo anniversario?

Sono orgoglioso e soddisfatto di far parte di questo pezzo di storia. Il bollettino delle valanghe dell’SLF è inoltre un ottimo biglietto da visita.

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Monte Bianco, agosto 2018

di Danny Caron

Il 3 agosto, durante una calda giornata, bazzicavo con Cesare tra la Val Scaradra e la Valle di Garzora. Più precisamente eravamo di ritorno dal Plattenberg, Cima di 3’041 metri situata tra il Torrone di Garzora e il Pizzo Cassinello. Partiti da Garzott verso le 06:30 ci dirigiamo verso il rifugio Scaradra a quota 2’173 metri. Da qui saliamo sul pendio, posto a nord del rifugio, fino a percorrere un canalino erboso che ci porta all’interno dell’anfiteatro creatosi tra il Plattenberg e il Vernokhörner a circa 2’600 metri. Risaliamo in direzione sud-est su terreno detritico rimanendo sotto la cresta a ovest della cima. Dopo alcuni tratti ghiacciati dove dobbiamo fare uso delle mani raggiungiamo la bocchetta posta a 2’982 metri. Da qui, in breve tempo, raggiungiamo la Cima. Dopo aver assaporato il momento intraprendiamo la via del ritorno scendendo a est del Torno quando, all’altezza di Garzora, mi chiama Ronnie. Dopo le chiacchiere di rito mi proporne una salita con lui e suo padre Giorgio.
Si tratta del Monte Bianco salendo per la via normale Italiana. Dubbioso in un primo momento, nei giorni successivi decido di confermare la mia presenza, d’altronde è uno dei sogni nel cassetto. Il programma prevede partenza in macchina il 15 agosto con arrivo ed avvicinamento al rifugio Gonnella, salita sulla cima il 16 e discesa dalla capanna nella giornata del 17.
Io e Ronnie non ci conosciamo molto al di fuori dell’arrampicata o il bouldering, passioni che ci accomunano. Così, al fine di vedere se l’alchimia funziona l’11 agosto percorriamo i 10-3000 della Valle Malvaglia insieme…ma questa è un’altra storia.

Finalmente arriva ferragosto. Alle 04:45 sono a Biasca in attesa degli altri due: Ronnie e suo padre Giorgio. Il viaggio verso Courmayeur risulta velocissimo! Circa 300km in 3 ore. Beviamo un veloce caffè in paese e ci dirigiamo verso il parcheggio nella Val Veny. Raggiunta la sbarra lasciamo l’auto e ci incamminiamo lungo la strada colma di turisti che si dirigono verso la Cabane du Combal. Giunti in zona rifugio imbocchiamo il sentiero (roccioso nei primi quattro km) che conduce sul lunghissimo Glacier du Miage in direzione del rifugio Gonnella.

Il percorso, ad eccezione della prima parte sulla morena, non è molto definito e dobbiamo scavalcare buchi, crepacci e rocce smosse. Dopo circa 3 ore raggiungiamo la parte alta del ghiacciaio dove scendono le diramazioni del Glacier du Mont Blanc, del Glacier du Dome e del Glacier de Bonassay a quota 2’500 metri. All’improvviso un grande boato ci fa saltare per aria. Una frana scende da un canalino a circa duecento metri da noi arrivando a cinquanta metri dalla traccia di salita. Nella nebbia formatasi dal crollo procediamo mantenendo la destra del ghiacciaio fino all’imbocco del ripido sentiero che porta al rifugio. La successiva tratta concentra tutto il dislivello per arrivare ai 3’072 metri del rifugio. Il percorso a tratti è esposto, ma attrezzato con scalette e corde fisse.

Dopo cinque ore abbondanti arriviamo al rifugio. Ci aspetta un po’ di riposo, cena alle 18:30 e colazione a mezzanotte. L’obiettivo comune è quello di dormire il più possibile.
Durante la cena eravamo al tavolo con due ragazzi di Roma, tornati quel giorno dalla cima, ed un tipo del Trentino. Dopo aver chiesto un po’ di informazioni ai due risultiamo un po’ scettici sul giorno seguente in quanto, a detta loro, l’ascensione risultava piuttosto complicata soprattutto nella parte di discesa a causa del caldo, della pendenza della cresta, dello scioglimento del ghiaccio che faceva muovere le rocce in cresta e dei numerosi ponti di neve che cedevano. Vedevamo quei due alpinisti stravolti con una sana invidia. Loro erano lì in capanna esausti, ma con la certezza di aver portato a termine quello per cui erano lì. Il loro più grande sforzo dopo quella giornata sarebbe stato quello di arrampicarsi sul piano superiore del letto a castello.

il ghiacciaio che avremmo risalito la notte seguente

Suona la sveglia. Ho dormito poco e male continuando a pensare al giorno che ci aspettava. Facciamo colazione rapidamente e attorno alle 00:40 siamo incordati e con i ramponi ai piedi pronti a partire. Siamo tra i primi, davanti a noi solo il signore di Trento di cui ci fidiamo a seguirne le orme per scorgere la traccia nel buio. Poche ore prima, durante la cena, ci ha detto che era stato lì un mese prima e conosceva bene la traccia di salita. Saliamo per circa due ore e venti aggirando grandi crepacci e seraccate. La notte nasconde l’ambiente in cui ti trovi. Questo ti permette di concentrarti sulle tue energie e di camminare a testa bassa come un mulo, ma sfortunatamente il buio nasconde anche delle insidie.
Arriviamo in cima al ghiacciaio sotto il Col de Bionnassay. A questo punto abbiamo oramai raggiunto il trentino. Sale convinto un grande pendio e noi lo seguiamo. Arrivati ai piedi della cresta rocciosa qualcosa non quadra. L’uscita sembra più complicata di quanto dovrebbe essere. Guardo rapidamente il GPS sul telefono e mi accorgo che siamo circa duecento metri più a ovest rispetto al punto di uscita. Dopo un attimo di imprecazioni decidiamo di fare la traversa verso est per raggiungere l’uscita. Il trentino, Diego, ha con sé una corda da cinquanta metri. Mandiamo lui davanti dandogli tre o quattro viti da ghiaccio per proteggere la traversata. Giorgio lo assicura mentre io, ultimo di cordata, faccio una sosta con due viti per assicurare me e Ronnie mentre attendiamo. Finiamo la “benedetta” traversa perdendo mezz’ora di tempo. Le altre cordate ci hanno oramai raggiunto. Appena usciti dal ghiacciaio giungiamo sulla cresta rocciosa. Diego piega la corda e torna libero in solitaria. Dopo circa quindici minuti vediamo che è rimasto indietro di un bel tratto rispetto a noi.
Finalmente sul giusto tratto di salita raggiungiamo le Piton des Italiens 4’002 metri; prima cima sul nostro percorso. Qui la luce comincia a dar forma ai rilievi. Il panorama intorno a noi è magnifico, indescrivibile. L’ambiente si tinge di viola e arancione, classici colori dominanti all’alba. In lontananza si vedono le luci delle pile, che lentamente salgono per la via normale Francese.

Da qui in poi si cammina sulla cresta nevosa. Nella prima parte risulta molto affilata e con un crepaccio a metà, dopodiché comincia ad aumentare la pendenza fino a raggiungere i 45 gradi. Dopo quaranta minuti raggiungiamo la seconda cima, il Dome de Gouter a 4’304 metri. Cominciamo a notare la stanchezza ma quello che abbiamo davanti ai nostri occhi ci dà la forza di procedere!

“Pointe Noire de Pormenaz” vista dal Dôme

Dopo il Dome de Gouter la via si incrocia con la via normale che sale dalla Francia, più precisamente dal rifugio delle Aiguille du Gouter situato a 3’817 metri. La maggior parte delle persone sceglie la via Francese perché risulta molto più breve e con molto meno dislivello. Infatti, con circa quattro ore di salita a buon passo si è sul tetto delle alpi. Da qui in avanti il Bianco sembra un bellissimo pandoro su cui corre una lunga colonna di formiche dirette alla cima.
Sono passate circa sei ore da quando siamo partiti e mancano circa cinquecento metri di dislivello. Anche se abbiamo perso tempo nella parte sotto siamo perfettamente in orario per la cima.
Tra il Dome de Gouter e il Monte Bianco c’è un bivacco d’emergenza costituito da due baracche prefabbricate. La puzza di piscio e il gran numero di gente ci spinge a tirare dritto. Il guardiano del rifugio Gonnella successivamente ci ha fatto vedere le foto dello schifo al suo interno. Fortunatamente non ci siamo entrati né in discesa né in salita.

L’ultima tratta risulta lunga e noiosa, in parte a causa delle persone che si fermano continuamente durante l’ascensione e un po’ per gli scambi da effettuare sulla cresta con le persone che scendono.

Dopo otto ore e cinquanta, alle 09:10 siamo in cima al Monte Bianco, 4’810 metri!

Scendere, in questi casi, risulta più complesso di salire; complici la stanchezza, la neve molle e l’inizio di perdita di concentrazione. Alle 09:50 ci avviamo per la discesa. Anche se sembra essere prestissimo, in realtà siamo appena in orario in quanto la discesa durerà ancora sei orette.
Malgrado tutto il ritorno in capanna risulta veloce e scorrevole. Passiamo senza problemi Les Piton des Italiens e le roccette, come le chiamavano i due romagnoli.
L’unico punto dove perdiamo un po’ di tempo è la calata dalla cresta rocciosa che porta al pendio sommitale del ghiacciaio, dove durante la notte abbiamo sbagliato strada. Facciamo una prima calata di quindici metri superando il piccolo strapiombo. La calata ci porta direttamente sul nevaio, sotto di noi la crepaccia terminale coperta da un ponte di neve. Decidiamo di fare un’altra calata in doppia così da superarla e poterci incordare lunghi per procedere sul fessurato ghiacciaio. Faccio una goccia nel ghiaccio con la piccozza. Posiziono la corda al suo interno e mi calo per primo. Dopo di me mi raggiungo Ronnie e poi Giorgio. Superata la difficoltà ci incordiamo e procediamo verso la capanna.
Scendendo dalle seraccate finalmente riusciamo a dare le proporzioni a dove siamo passati nella notte. Grandi pendii e grossi seracchi ci hanno accompagnato durante la salita.
Alle 15:50 siamo in capanna felici di aver portato a termine l’ascensione. Quasi non ci crediamo, ma per il momento desideriamo solo bere qualcosa, sistemarci, cenare e andarcene a letto.
Circa un’ora e mezza dopo di noi arriva una coppia di Sloveni che mi dicono di aver rischiato la pelle nella zona dove noi abbiamo fatto le doppie. Lei è scivolata trenta metri sopra la crepaccia terminale. Nella caduta ha puntato i ramponi facendo un salto mortale in avanti e fermandosi come una freccetta su un bersaglio. Lui colto dallo strappo è scivolato e dopo qualche metro fortunatamente è riuscito a fermarsi, frenando con la piccozza, evitando di finire nel crepaccio. Mi confida che effettivamente per loro quel giro era troppo impegnativo, anche se effettivamente la cima l’avevano messa in tasca comunque. Verso le 18:00 arriva anche Diego, il trentino che involontariamente ci ha portati fuori strada.
Passo la serata chiacchierando con Ronnie e alle 22:00, finalmente, la nostra giornata si conclude.
Inaspettatamente il giorno seguente, contrariamente alle previsioni, è bello. Durante la discesa prendiamo qualche goccia solo nella parte in fondo al ghiacciaio roccioso. Finalmente verso le 12.30 arrivammo al punto di partenza. Con lo sguardo verso casa, ma con il cuore ancora un po’ in vetta, ci avviammo verso il Ticino, dove termina la nostra bellissima avventura.

Soccorritori appesi a un filo

Intervista a Filippo Genucchi, coordinatore degli specialisti del Soccorso alpino a disposizione della Rega.

archivio Rega

Dall’intervento in parete per recuperare un alpinista all’atterraggio sopra la valanga. A vegliare sulla sicurezza di team e paziente ci sono i volontari specialisti in elicottero.
‘Il Leitmotiv degli incidenti? La tendenza a sopravvalutarsi’.
di Chiara Scapozza – LaRegione, 29 luglio 2019

«Spesso quando ti chiamano sei il primo che scende: oltre a mettere in sicurezza il paziente diventi anche gli occhi del medico». Medico che qualche decina di metri più sopra, nell’elicottero della Rega, attende informazioni sullo stato di salute di chi ha allarmato i soccorsi. Il compito di garantire a tutti la sicurezza in interventi su terreni e in zone impervi spetta ai ‘soccorritori specialisti elicottero’ (Sse), ossia soccorritori del Soccorso alpino svizzero che, a titolo volontario, sono messi a disposizione della Guardia aerea svizzera. In Ticino sono dieci uomini, suddivisi regionalmente in due gruppi, coordinati da Filippo Genucchi. Vengono chiamati una cinquantina di volte sull’arco di un anno.
In media una volta la settimana l’elicottero rosso e bianco decolla da Magadino e, prima di raggiungere il paziente, fa tappa là dove il soccorritore si fa trovare, munito del materiale necessario.
«Il nostro compito principale è di evitare che accada un altro incidente – spiega Genucchi –. Ciò vale sia per il paziente che, ad esempio, non è più in grado di avanzare su una parete rocciosa, sia per le persone che si trovano con lui e che, magari in preda al panico, non sono più in grado di muoversi in sicurezza.
Sta a noi valutare se anche loro devono essere evacuate con l’elicottero o anche più semplicemente accompagnate a valle. L’apprezzamento sulla situazione compete a noi. Altre volte capita che siamo sollecitati per dare un colpo di mano al medico. Il responsabile dell’operazione è sempre il pilota, ma poi a dipendenza del momento il ‘lead’ dell’intervento lo prende qualcun altro».

A parte il momento di ‘briefing’ sull’accaduto durante il volo, il lavoro del soccorritore è essere appeso al verricello, con un cavo che raggiunge i 90 metri. Un problema?
Diciamo che per noi i problemi iniziano quando stacchiamo l’argano o, più in generale, quando siamo fuori dall’elicottero. Lì devi esser certo di aver assicurato tutti, te compreso.

Quali sono le difficoltà?
Oltre a quelle ambientali direi il fatto di trovarsi catapultato dal divano di casa al cono valangario o in un terreno scosceso nel giro di pochissimo tempo, alle prese con valutazioni a volte molto complesse.

Vi è poi l’aspetto interpersonale ed emozionale, considerato che vi capita di arrivare dal paziente per primi….
Sì, ma sei talmente impegnato in quello che stai facendo che riesci a mantenere una certa distanza. O quanto meno questo è quanto capita a me. Diciamo che non percepisco di subire dei ‘traumi’, o almeno non me ne accorgo. Certamente sono momenti molto intensi. E in caso di incidenti mortali, magari con coinvolti giovani, è assurdo constatare come talvolta all’origine dei fatti vi è una semplice banalità. Persone ottimamente preparate che cedono alla stanchezza e all’ultima discesa con gli sci optano per una scorciatoia… C’è chi spesso e volentieri commenta con il tipico ‘è andato a cercarsela’. Io invece non ci credo, e lo dico in base alla mia esperienza. Chi la sta facendo è convinto che quella sia la cosa più giusta da fare.

Non c’è soltanto il protagonista di un incidente grave di cui occuparsi.
Quando sei alle prese con la tecnica leggi la materia, che sia la neve o la roccia. Quando invece hai a che fare con le persone devi gestirle, col pugno di ferro o di velluto, a dipendenza delle situazioni. C’è chi ad esempio, visibilmente scosso da quanto successo al compagno di cordata o di raccolta funghi, si rifiuta di venire evacuato in elicottero.

Quali sono le competenze che un soccorritore Sse deve avere?
Al di là dell’aspetto caratteriale di cui ho appena detto, certamente buone conoscenze tecniche e del territorio. Aspetto, quest’ultimo, che diventa determinante in inverno. Gli interventi sulla neve richiedono competenze approfondite e per provare ad avere buone chance devi essere in sintonia con l’ambiente che ti circonda. Sta a noi ad esempio capire se l’elicottero può atterrare su una valanga e si possono svolgere le operazioni di soccorso senza che nel bel mezzo te ne arrivi addosso una seconda. Tragedie che alle squadre della Rega, purtroppo, sono già successe.
Non solo in inverno comunque è chiaro che devi essere in grado di fare una valutazione accurata del luogo e, in intervento, risolvere eventuali imprevisti con il poco materiale che hai a disposizione. Il più delle volte sei da solo col tuo sacco. Devi avere un certo mestiere.

Mestiere che si apprende in anni di frequentazione della montagna e si affina, per i soccorritori specialisti elicottero, grazie a una formazione specifica finanziata dal Soccorso alpino svizzero. Con gli occhi dello specialista, quali consigli si sente di dare a chi si avventura sui pendii ticinesi?
In generale il ‘leitmotiv’ degli incidenti trovo sia la tendenza a sopravvalutarsi e a non avere davvero il ‘focus’ su cosa si sta facendo. A mantenere un atteggiamento difensivo di solito non si sbaglia.

I dieci 3’000 della Valle Malvaglia

di Danny Caron

Finalmente, dopo aver messo l’idea in programma da diverso tempo, trovo qualcuno che mi accompagna per affrontare il concatenamento delle dieci cime sopra i 3000 metri della Valle Malvaglia. Cime che fanno da confine tra Ticino e Grigioni. In realtà le vette, tralasciando l’Adula, sono nove. Il Piz de Stabi 3136m, sebbene fuori dalla linea di confine, è di passaggio e sarebbe dunque un vero peccato non salirci.
Io e Ronnie ci troviamo alle 02:30 a Malvaglia, saliamo fino a Fontané dove lasciamo la prima auto e saliamo parcheggiando la seconda a Cusiè. Ci incamminiamo verso le 03:10. Il cielo è stellato e ci sono circa 15°C.Condizioni perfette per camminare!

Raggiungiamo l’alpe di Quarnei in circa 45 minuti, imboccando, tra le mucche, il sentiero che porta al laghetto dei Cadabi. Appena sopra la cascata a quota 2400 metri attraversiamo il riale puntando verso est in direzione del Cengio dei Cadabi 2468m. Da qui in poi saliamo le Gane dei Cadabi immersi nella nebbia prestando particolare attenzione a mantenere il fiumiciattolo alla nostra destra per orientarci nel buio. A quota 2700m buchiamo lo strato di nebbia e la vista si apre sulla Valle Malvaglia. Raggiunto il Passo dei Cadabi il sole comincia ad illuminare le nuvole verso est. Da questo punto è possibile attaccare la cresta verso nord che porta alla cima dell’Adula percorrendo la “Via dell’amicizia”. Noi proseguiamo verso sud-ovest. Dopo circa tre ore ci troviamo sulla prima cima presente nella nostra tabella di marcia, ovvero la Lògia 3080m. Dopodiché scendiamo lungo la cresta.
Sia la discesa dalla Lògia che la salita al Pizzo Baratin 3037m risultano veloci. Dopo circa mezz’ora, infatti, raggiungiamo quest’ultimo. Il tratto di cresta che porta alla prossima cima, nonché terza tappa del nostro giro, è abbastanza pianeggiante ad eccezione dell’ultimo tratto nel quale bisogna affrontare alcuni facili tratti di arrampicata. Nell’arco di dieci minuti giungiamo al Pizzo Cramorino 3134m.
Abbiamo giusto il tempo per sgranocchiare qualcosa quando presto giunge già il momento di avviarci verso il Vogelberg 3218m. Qui la cresta risulta facile e divertente, al punto che in mezz’oretta ci troviamo in vetta al nostro quarto obiettivo. Altri venticinque minuti sul filo ci portano al Rheinquellhorn 3199m.
Sono circa le 08:00 e abbiamo alle nostre spalle la metà delle cime previste. Da qui in poi le distanze e i tempi tra una vetta e l’altra si allungano. Cominciamo la discesa sulla piacevole cresta che porta al Zapportpass. Dopodiché il percorso diventa pianeggiante fino al Pass de Stabi, dove passati alcuni laghetti, deviamo in direzione est per salire l’unico 3000 “straniero”: Il Piz de Stabi 3135m. Dopo quarantacinque minuti ci ritroviamo a scattare le foto all’ometto grigionese.

La settima cima da affrontare è il Puntone dei Fraciòn 3202m. Per raggiungerlo dobbiamo ripercorrere il tratto fino al passo. Successivamente percorriamo il filo in direzione sud che porta al Puntone dei Fraciòn. In trenta minuti siamo ai piedi della croce per la foto di rito. Dopo aver mangiato, ci avviamo verso la complessa cresta che porta al Passo di Giumello. Quest’ultimo risulta essere il passaggio chiave dell’intero giro: scendere lungo il filo di confine fino a quota 3100 metri. A destra della direzione di discesa proseguire verso la Valle Malvaglia, qui si vede un’evidente torre di roccia dalla forma quadrata, poi abbassarsi fino a quest’ultima e poco prima di averla raggiunta tagliare verso sinistra scendendo per le cengette fino a riprendere la cresta a quota 3040 metri. Questo tratto è particolarmente esposto. È possibile evitarlo ritornando fino al Pass de Stabi, poi scendere con l’aiuto della corda fissa d’acciaio verso est e da ultimo aggirare il Puntone dal lato grigionese per poi ricongiungersi al Passo Giumello. Una volta raggiunto quest’ultimo, ci siamo abbassati sul versante ticinese in modo da evitare le torri che conducono al Puntone della Parete che ci avrebbero fatto perdere diverso tempo, in quanto bisogna legarsi.
Una volta superato il Puntone della Parete, si ritorna in cresta a quota 2924 metri. Da questo punto, dopo un chilometro di filo, giungiamo al Piz Piotta 3121m. Sono trascorse due ore dall’ultima vetta.
La nebbia sale dai Grigioni diradandosi sulla cresta, nei successivi trenta minuti raggiungiamo la penultima vetta: la Cima Rossa 3161m. Sono le 11:50 e ci manca solo l’ultimo traguardo. Per completare al meglio questa giornata un’aquila mostra la sua bellezza volandoci a pochi metri di distanza. Purtroppo, questa rara visione non allevia il nostro dolore alle gambe che, a questo punto del cammino, comincia a farsi sentire.

Intraprendiamo la discesa fino alla Bocchetta di Cima Rossa per poi salire l’ultimo dei dieci pendii. Abbiamo impiegato quasi un’ora per arrivarci. Alle 12:30 la Cima dei Cogn 3062m è finalmente nostra! Dopo nove ore e mezza si conclude così la nostra avventura in cresta. Purtroppo, bisogna ancora affrontare la lunga discesa che conduce a Fontanè passando per l’Alpe di Piotta. Discesa che dura due ore e trenta per un totale di circa dodici ore.


Informazioni utili

  • distanza 27km
  • dislivello positivo totale 3000 metri
  • dislivello negativo totale 3400 metri
  • durata 12 ore
  • eventuale punto d’appoggio: Capanna Quarnei
  • noi abbiamo percorso l’intero giro senza usare corda e imbrago ma per sicurezza li avevamo nel sacco.

Tempistiche e riferimenti

  • 03:10 partenza da Cusié
  • 03:55 Alpe di Quarnei
  • 06:00 Lògia
  • 06:30 Pizzo Baratin
  • 06:50 Pizzo Cramorino
  • 07:20 Vogelberg
  • 08:00 Rheinquellhorn
  • 08:40 Piz de Stabi
  • 09:15 Puntone dei Fraciòn
  • 11:15 Pizz Piotta
  • 11:45 Cima Rossa
  • 12:30 Cima dei Cogn
  • 15:00 Fontanè