Un’escursione invernale in una regione splendida tutto l’anno
articolo tratto dal settimanale Migros Azione nr. 12 del 16.03.2020
di Romano Venziani, testo e immagini
Il vento del nord non si è dato tregua, la scorsa notte. Ha spazzato le creste sollevando i cumuli di neve ammassandoli nei canaloni, che graffiano profondamente la montagna, ed è scivolato giù dalla Valle di Santa Maria seminando merletti di gelo sugli alberi intirizziti. Così stamattina la neve è compatta, dura come il cemento. «Non mi serviranno le racchette», penso, saggiando il biancore con gli scarponi. Mi chiedo però come sarà più tardi, con questo sole, già alto e caldo nel cielo sfacciatamente azzurro. L’anziano contadino, che mi guarda lisciandosi la barba, intuisce i miei dubbi e fa, «può darsi che si sprofondi, ma non ne sono sicuro. L’inverno non salgo più sui monti, da quando sono in pensione. Prima vivevo tutto l’anno lì sopra, a Oncedo, con le bestie». Adesso preferisce starsene tranquillo nella sua casetta di Piera, legna per il camino ne ha abbastanza, e poi, passeggiando su e giù sulla strada, s’imbatte sempre in qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. «È neve compatta e con il freddo che ha fatto stanotte facile che tenga su tutto il giorno», sentenzia alla fine. Mi fido, lascio le racchette in macchina e mi metto in cammino.
È ormai diventato un must, per me, il giro dell’altipiano di Dötra e Anveuda. In ogni stagione, perché ogni stagione ce la mette tutta per accoglierti con un paesaggio straordinario, che ti lascia immancabilmente senza fiato.
La primavera lo incorona di fiori, scatena voli d’insetti su distese gialle di botton d’oro e ranuncoli dei boschi. Le pennellate di verde tenero dei larici ravvivano la chiazza più scura degli abeti, le gemme gonfie degli ontani si aprono liberando un vibrare di foglioline, mentre alti si alzano i canti degli uccelli migratori tornati a nidificare con visioni africane nei loro occhietti vivaci.
L’estate porta l’omogeneità del verde, spruzza i prati di fiori dai mille colori e l’aria profuma di resina e pini cembri. Si deve all’autunno, però, il più bel lavoro di pittura paesaggistica. Lui sì che sa sbizzarrirsi con i colori: usa tutti i toni caldi dei gialli, dei rossi e dei marroni e li distribuisce con armonia sulla tela dei monti, che cercano di trattenere così l’illusione di un po’ di tepore per l’inverno in arrivo.
Quando poi cade la neve, la montagna si fa magica, immersa in una pace soffice e irreale, incrinata appena dai voli delle ghiandaie o dai richiami striduli delle cornacchie.
Di tanto in tanto, però, quel silenzio a cui non siamo più avvezzi e che ci avvolge di benessere si sbriciola, colpito in pieno dal frastuono di una motoslitta. Sacramenti finché il rumore si allontana, si fa ronzio, per poi dissolversi nel nulla, lasciando solo un filo di fumo nell’aria pulita, che trattiene per un attimo l’odore pungente del carburante.
Con il loro su e giù, le motoslitte hanno pestato ben bene la neve della stradina, che si stacca dalla cantonale del Lucomagno e sale sul versante sinistro della valle. Si cammina agevolmente, seguendo per un breve tratto il Ri di Piera, un ruscelletto ora esangue, ridotto a una lieve traccia scura sul terreno innevato. E pensare che, quando ci si mette, è capace anche lui di far la voce grossa e causare disastri. Lo ricordo nell’87, l’estate delle alluvioni, con la valle di Blenio isolata. C’ero passato sopra in elicottero per documentare in immagini l’entità dei danni provocati dal Brenno in piena. Volando verso il Lucomagno, in mezzo a violenti scrosci d’acqua e a un guizzare inquietante di fulmini (bacerò la terra all’atterraggio), avevo visto là sotto il Ri di Piera sgorgare sbuffando dal bosco, per poi rotolare tutto melma e schiume giù verso Camperio e Sommascona. Gli annali della valle lo ricordano ancor più arrabbiato, quella volta, nel settembre del 1927, quando «un enorme ciclone si abbatté sulla Costa di Dotro ed Anvedova, e l’irruenza delle acque precipitanti a valle… divelse gli alberi, che fecero chiusa, segnatamente al Ponte di Piera e nella Gola dell’Oer da Cossa, per poi sgombrare con impeto immenso, rasare parte di Camperio e devastare Sommascona e tutta la conca verdeggiante che scende fino a Lavorceno».
Volendo si può continuare sulla stradina, ma preferisco la via più diretta e prendo il sentiero che, dopo una ripida salita, sbuca sulle gobbe dolci di Oncedo per poi infilarsi nel bosco della val Bogin. La neve, inondata di sole, è tutta un luccicare di cristalli e continua impassibile a reggere il mio peso. Non ce n’è molta, a dire il vero, e qua e là si vedono ampie chiazze di erba secca.
Dopo un po’, le cascine e le stalle di Dötra appaiono dietro un intreccio di rami e il sentiero, per un tratto pianeggiante, prima di affrontare l’ultima salita incrocia di nuovo il Ri di Piera, il quale, lì in alto, si allarga in un ventaglio di microscopici affluenti, che succhiano le acque dell’ampia conca alle spalle del nucleo, dove si aprono estesi prati paludosi.
La regione, unitamente al Lucomagno, è iscritta dal 1996 nell’Inventario dei paesaggi palustri d’importanza nazionale e, con i suoi 2745 ettari, è la più estesa delle cinque zone ticinesi, che figurano nel prezioso documento; le altre sono il Piano di Magadino, i Monti di Medeglia, l’Alpe di Chiera (sopra Faido) e l’Alpe di Zarìa (in Val Lavizzara).
Con l’entrata in vigore dell’Ordinanza di protezione delle zone palustri, di cui l’Inventario è parte integrante, si sono creati i presupposti per la salvaguardia di questi ambienti naturalistici straordinari. L’Ordinanza non si limita però a imporre solo vincoli protettivi, ma prevede anche la possibilità di favorire lo sviluppo di questi spazi e un loro uso sostenibile. Le aree palustri e i prati magri di questo altipiano unico in Ticino, poco interessanti dal punto di vista agricolo, grazie a un progetto d’interconnessione promosso e coordinato dalla Fondazione Dötra, oggi sono gestiti in modo estensivo dai contadini di Olivone, i quali, con lo sfalcio e rinunciando a concimazione e bonifiche, contribuiscono alla conservazione di queste superfici estremamente preziose dal profilo della biodiversità.
D’estate le praterie di Dötra sono una delizia per gli occhi, che si saziano dell’arcobaleno di colori di una miriade di fiori. Per il momento, però, il mio sguardo abbraccia soltanto una distesa di bianco su cui poggiano l’azzurro del cielo e il nucleo di cascine, che appare deserto e silenzioso nell’aria immobile. Chiuse anche le imposte rosso brillante della Capanna della SAT Lucomagno, con la sua bandiera svizzera che penzola, inerte, dal pennone.
Un «Aperto» ritagliato nel legno è invece appeso all’entrata del Grotto Dötra. È un po’ cambiato, dentro, dall’ultima volta che sono stato qui, tavoli nuovi, quadri alle pareti, due fisarmoniche appoggiate sul davanzale di una finestra. Un omone con occhiali neri, lobo con orecchino e uno strano tatuaggio su un avambraccio, contempla serioso il suo smartphone. Una coppia di svizzero-tedeschi con gli scarponi da sci arancio fosforescente chiacchiera con un anziano dalla barba sale e pepe.
Dalla cucina, «Zio», l’attuale gerente, mi saluta debordante e cordiale. «Lui è Olli», mi dice, accennando col capo al cagnone nero, che scodinzola felice puntandomi il naso all’altezza del torace. Christian Zaninelli è qui da poco più di un anno, ma ha il mestiere nel sangue. «Ho gestito la capanna Grossalp – racconta – il Grotto Lafranchi di Coglio, infine sono arrivato in Dötra. Ho cominciato come responsabile della capanna della SAT, poi si è liberato il grotto e così eccomi qui. Mi piace da matti, la montagna, non potrei più vivere al piano». Un entusiasta, penso, ben vengano persone come lui. «Vai di sotto a vedere la mia enoteca» riprende, rigirando il mestolo nella pentola del minestrone. M’infilo in un’angusta scala, che scende in quella che un tempo era la stalla delle mucche. Quadri appesi alla parete giallo-antico, vecchi cimeli contadini e la lunga mangiatoia di legno tirata lustra, con decine di bottiglie di vino in mostra su un letto di paglia. «Sei ben fornito», gli dico tornando di sopra.
«Assaggia questo» mi fa con un sorriso soddisfatto, allungandomi una fetta di pane. Lo cuoce lui, di tutte le forme e dimensioni, ed è squisito.
Un foglietto fissato alla parete reclamizza «una stimolante esperienza di un viaggio in slitta trainata da motoslitta, sulla tratta Piera-Dötra, proposta dagli operatori autorizzati Pasquale e Diego Devittori e Enea Solari», seguono i numeri di telefono e le tariffe, sessanta franchi a persona andata e ritorno, cento a viaggio per tre passeggeri…
È ancora un turismo a misura d’uomo, quello che ritroviamo quassù, diciamo pure «ecosostenibile», nonostante l’occasionale scoppiettare puzzolente delle motoslitte, peraltro indispensabili per chi, sul monte, ha un cascinale e vuole approfittarne tutto l’anno.
E pensare che nello splendido altipiano di Dötra sarebbe dovuto sorgere un faraonico insediamento turistico, con alberghi, appartamenti condominiali e châlets per tremila posti letto, migliaia di posteggi, quindici chilometri di impianti di risalita e un’estensione di piste da sci, che avrebbero snaturato definitivamente l’immagine della montagna. Il progetto, nato negli anni Sessanta e promosso dalla Dötra SA all’inizio del decennio seguente, prevedeva un investimento di oltre 300 milioni di franchi ed era stato accolto con entusiasmo dal comune di Olivone, dalla Regione Tre Valli, che lo aveva inserito nel suo piano di sviluppo, e dal Cantone intenzionato a partecipare finanziariamente all’operazione. L’idea però, a causa dell’alto costo, si trascinò negli anni e, per finire, grazie alla nascente e nuova sensibilità ambientale fu definitivamente abbandonata.
«Il gigantismo da noi non fu mai pagante», scriverà Graziano Papa, il quale, con Ferruccio Bolla e varie associazioni ambientaliste, si era fermamente opposto alla sconsiderata iniziativa, che minacciava «uno dei paesaggi più morbidi, più torniti, più sereni, più musicalmente pastorali delle Alpi centrali».
Ci penso spesso, al mega-progetto, quando ammiro da lontano il nucleo armonioso di Dötra, disteso sul dolce pendio, con, sullo sfondo, la vetta tozza dell’Adula, il suo ormai misero ghiacciaio, le tante cime allineate sullo spartiacque tra Ticino e Grigioni: il Grauhorn, la Punta dello stambecco, il pizzo Cassimoi, il Cassinello…
Il sole sta ormai solleticando la Punta di Larescia, gocce di luce dorata indugiano ancora per un attimo sugli aghi degli abeti, un’atmosfera stupefatta sorprende la montagna e inizia a far fresco. È tempo di tornare al piano. Passando da Anveuda, con le sue cascine abbracciate le une alle altre nell’ampia conca già immersa nell’ombra, rivolgo l’immancabile saluto silenzioso alla Paolina, l’anziana contadina che qui era di casa. Ero salito a trovarla qualche giorno dopo il suo novantesimo compleanno. Un 90 di erba e fiori intrecciati era appeso all’entrata, ma la porta era chiusa. Lei se n’era andata, mi diranno, all’indomani della festa, per sempre. Ma io continuo a immaginarla ancora lì ad attizzare il fuoco nel camino, con il mazzetto di fiori sul davanzale della finestra, una luce fioca appesa a una vecchia trave. E sono convinto che la sentirò arrivare alle mie spalle, scendendo verso Piera, con il fazzoletto in testa, lo sguardo vivace e un sorriso radioso. Seduta sulla slitta, che scivola veloce a valle, mi saluta con un cenno della mano. Così mi piace ricordarla.